Vai al contenuto
Home » Blog » Fomentare l’apertura, di Stefano Caggiano

Fomentare l’apertura, di Stefano Caggiano

lampada Julia, design by Peter Jansen per MGX 

 

Semplificazione e Riduzione. L’inattuabile.

I sensibili o gli appassionati al tema ambientale la chiamano “sostenibilità”.
I fashionisti che non riescono a decidersi sui look da creare seguono la regola del less is more.
I designers si arrovellano per cercare la soluzione più semplice al problema. Le aziende, la più economica (anche le famiglie).
Ridurre, togliere. Semplificare, facilitare. Richiedono sforzi immensi, tempo, ricerca.

Eppure la soluzione al problema sarebbe semplice e di facile attuazione: legarsi le mani, mettersi l’anima in pace e non progettare, trasformare, creare nulla. Soprattutto noi designers.

Credete sia impossibile, addirittura contronatura?

Come mai l’uomo continua a creare, comprare, usare, trasformare, buttare, smaltire in un vortice senza inizio ne fine ed il designer non è di alcun aiuto?

Questo articolo di Stefano Caggiano me l’ha detto con parole semplici e cito:

Mari ha ragione: i tavoli, le sedie e le lampade non hanno più alcun bisogno di essere progettati – siamo NOI che abbiamo bisogno di progettare altri tavoli, altre sedie, altre lampa­de.

Questo bisogno che sento anche io e che non mi da pace vive in me con tutte le sue contraddizioni.

Trovando l’argomento di profondo interesse gli ho chiesto di scrivere un articolo apposta per questo blog e lui, gentilissimo, ha accettato. Spero che anche voi, occhi curiosi, mani operose, troviate un pò di sollievo prima e durante la prossima avventura progettuale.

 

sedia a dondolo Ocean Rocker III, design by Jolyon Yates

 

Fomentare l’apertura, di Stefano Caggiano

Al design oggi non interessa più la “bella forma”. Non solo, almeno. Soprattutto nel XXI secolo, ancorché de-finire la materia all’interno di una foggia lo scopo del progetto creativo è piuttosto quello di trans-finire le forme facendogli attraversare i vari stadi, del tutto permeabili, di una metamorfosi continua e protratta che tiene in vita l’esperienza del senso nella nostra epoca “liquida”.

In questa generale accelerazione cross-mediale (gli spazi di confine sono ormai i territori più affollati e gli ibridi le creature più diffuse) c’è qualcosa di radicalmente umano: perché l’uomo è il solo animale in grado di “vedere” la bellezza (per il pavone i “bei” colori della sua coda sono solo un segnale biologico legato all’accoppiamento, sono quindi funzionali, non c’entra l’estetica); l’uomo è cioè il solo in grado di vedere il potenziale oltre l’attuale, il possibile oltre allo strumentale, ed è quindi il solo in grado di modificare deliberatamente l’ambiente in cui vive.

 

Voronoi by Sander Mulder

 

Vi è una precisa ragione biologica per questo. A differenza degli animali, infatti, l’uomo non possiede un apparato di istinti specifici che gli lasciano percepire solo gli stimoli utili alla sua sopravvivenza (il cosiddetto “istinto di sopravvivenza” è in realtà una pulsione, perché è indeterminato, mentre gli istinti propriamente detti prescrivono comportamenti altamente determinati). Per questo rispetto all’animale l’uomo impiega molto tempo ad acquisire i propri schemi di comportamento: perché li deve imparare, mentre l’animale li possiede istintivamente.

Ciò però significa anche che, contrariamente agli animali, che rimangono rinchiusi in piani motori fissi (i cui mutamenti interessano solo la specie nell’arco evolutivo, ma non il singolo individuo all’interno della sua vita), l’uomo è anche come singolo individuo plastico e indeterminato: dal momento che “istintivamente” non sa fare niente, deve imparare anche le cose più semplici (per questo il nascituro rimane così a lungo dipendente dalla madre), e può quindi imparare a fare tutto, è biologicamente programmato per imparare a fare ciò che istintivamente non sa fare – camminare, parlare, correre, saltare con l’asta, nuotare, volare.

Il “difetto fatale” degli esseri umani è proprio questo: la loro incapacità di essere (solo) ciò che sono, e il loro essere quindi costitutivamente aperti al possibile. Ecco perché il design non lascia che le cose siano solamente stesse, e non smette di tornare a progettarle ancora e ancora: perché il progetto creativo è trasloco del medesimo nell’altro, liberazione di possibilità, apertura dell’immanenza all’ulteriorità. L’essere umano non progetta per fare oggetti non più di quanto faccia l’amore per fare figli: questi sono “output” possibili, sì, in certi casi auspicati, ma non si tratta di questo bensì del modo umano – finalizzato o non finalizzato che sia – di interagire con il mondo e con il tempo.

Stefano Caggiano

 

Predictive Dreams by Katsuyo Aoki

 

Stefano Caggiano, design strategist specializzato in strategie estetico-semantiche per il design di prodotto e il furniture design. Lavora come consulente, giornalista, docente.

 

Link: www.designconsultant.it

http://pinterest.com/DMSProject/ (Design Makes Sense Project)

http://www.artribune.com/2012/07/nellera-del-design-management/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *